Anatomia della comprensione (parte prima)

 

 

Per arrivare a “comprendere” la comprensione occorre chiarire le sue componenti basilari. Questo richiede una definizione e in parte una ridefinizione delle parole affinità, realtà e comunicazione che come vedremo sono la base della comprensione.

Affinità.

Potremmo definirla, in maniera semplicistica ma efficace, come la volontà di occupare lo stesso spazio. E’ un sentimento graduale che va da un minimo a un massimo in modo sfumato senza una soluzione di continuità. Quando è completamente negativo diventa antipatia e di fatto, se ci pensiamo un attimo, la persona che ci è fortemente antipatica la vedremmo bene dall’altra parte dell’universo o in qualsiasi altro luogo che ci stia lontano. Se arriviamo ad un altissimo grado di affinità positiva potremmo chiamarlo amore e, come ben saprete, da quel punto di vista avere dello spazio in mezzo tra noi e la persona amata può addirittura darci fastidio quasi a livello fisico. L’affinità quindi ci permette di tollerare di avere altre persone presenti nel nostro spazio e in effetti, se ci pensate un attimo, se nel nostro spazio (l’ufficio, il negozio, la piazza, l’auto o dovunque ci troviamo) c’è una persona sgradita (tecnicamente potremmo dire che proviamo per lei un sentimento di affinità bassissimo, se non addirittura negativo) proviamo un senso di disagio proporzionale a quanto ci è antipatica/sgradita la persona. Quindi il contrario di affinità è antipatia: più una persona è antipatica e maggiore è la distanza da noi che considereremmo ottimale. Al limite se proviamo la massima antipatia una persona la distanza ideale che dovrebbe essere tra noi e lei potrebbe essere qualcosa come i confini dell’universo, e ci sembrerebbe ancora poco. L’affinità permea qualunque cosa in un’infinità di sfumature e potremmo dire che il nostro universo, visto come tutta l’area che frequentiamo e su cui abbiamo l’attenzione quotidianamente (la nostra casa, i nostri familiari e le loro case, i nostri amici e le loro case, gli ambienti dove incontriamo tutta la gente che incontriamo di solito e che in qualche forma conosciamo, tutti gli oggetti che usiamo ecc), sia costituito da entità viventi e non viventi per le quali proviamo un qualche grado di affinità. Difatti se nel vostro universo entra una persona antipatica questa crea un certo scompiglio e attira pesantemente la vostra attenzione, così come accade se vi entra una persona per la quale proviate istantaneamente una forte affinità. Gli oggetti stessi che sono nelle aree che frequentiamo e di cui possiamo disporre liberamente sono oggetti su cui proviamo una quantità almeno minima di affinità perché tutti gli oggetti “antipatici”, che urtano la nostra sensibilità in qualche modo, sono ovviamente allontanati alla prima occasione (con buona pace dell’ingombrante e bruttissimo portaombrelli in ceramica regalo di nozze della suocera…).

Realtà

La realtà di una persona è l’indice di accordo che la persona stessa ha con i punti di vista degli altri. Noi guardiamo le cose che costituiscono il nostro universo con il nostro punto di vista. Ad esempio tutti gli oggetti che ne fanno parte hanno un nome, un uso e li descriveremmo in una certa maniera. Trovare qualcuno che chiama, ad esempio, il cavatappi “scoperchiatore” ci lascia sconcertati e al limite divertiti perché abbiamo il dato stabile che quell’oggetto si chiama “cavatappi” per noi e per tutti i nostri conoscenti. Per corollario, se scopriamo che l’oggetto che noi chiamiamo “scoperchiatore” per tutti gli altri si chiama “cavatappi” ci porta a sentirci in qualche maniera inadeguati perché scopriamo di avere un disallineamento con qualcosa che tutti gli altri danno per scontato (e in quel caso ci sarà qualcuno che guarderà noi sorpreso e divertito…). Dato che ognuno si crea un proprio universo di dati che considera attendibili. Alle volte questi dati collimano, su qualche aspetto della nostra vita, con qualcuno o qualche gruppo di persone. Alle volte invece scopriamo che non corrispondono e in tal caso cambiamo punto di vista o… cambiamo persona o gruppo contattato.  

Comunicazione

Nell’era della comunicazione, sembra quasi superfluo spiegare cosa sia. Tuttavia occorre prendere atto di alcuni dettagli “tecnici” sul termine. Una comunicazione avviene tra due terminali (persone, macchine, sistemi) che siano in grado di emettere e/o ricevere qualcosa. La comunicazione avviene attraverso una distanza tramite l’invio di qualcosa (un oggetto, una particella, un suono, una sensazione) da un terminale all’altro con l’idea che il terminale ricevente sia in grado di ricevere e fare suo il “messaggio” inviato. Per avere un ciclo completo di comunicazione occorre che il terminale A invii il messaggio al terminale B, che Il terminale B “risponda” al terminale A, che il terminale A invii al terminale B un riconoscimento, qualcosa che faccia capire che la risposta è arrivata e la comunicazione è conclusa. Una comunicazione modello potrebbe essere il classico: A:“Sai che ore sono?” B:“Sono le otto!” A:”Grazie!”. Cosa accade se si esce da questo schema? Supponiamo che A non sia stato abbastanza interessante per B da ottenere una risposta: A:”Sai che ore sono?” B:”…..” e A ci rimane male per la mancata risposta. E se B non risponde? A: “Sai che ore sono?” B: “Si!” e di nuovo A rimane sorpreso. Infine, che accade se manca il riconoscimento? A: “Sai che ore sono?” B: ”Sono le otto!” A”…..” e questa volta è B che considera A maleducato. Se mettete l’attenzione sulle comunicazioni che avvengono attorno a voi, troverete che questo schema è quello di norma utilizzato dalla maggioranza. Può capitare che sembra che manchi qualche parte, per esempio un riconoscimento, ma se analizzate quella comunicazione in maniera approfondita scoprirete che spesso la parte mancante è sostituita da uno sguardo, un gesto. Quando effettivamente una parte di questo schema manca il terminale a cui “manca un pezzo” si mostrerà infastidito e se l’altro terminale fa mancare sempre un pezzo dello schema avrà intorno a se molte persone che sono infastidite di parlare con lui. Una comunicazione può avvenire anche a senso unico. Se leggete un libro, ad esempio, state ricevendo una comunicazione da parte dello scrittore. Se toccate un tavolo ricevete temperatura e grado di finitura della superficie. Se gridate “GERONIMO!” mentre vi buttate con il paracadute fuori dall’aereo non vi aspettate che qualcuno vi risponda. Ricapitolando, nella versione più semplice e schematica, la comunicazione è qualcosa che invia un terminale che può trasmetterla verso un terminale che può ricevere quel qualcosa e comprende il fatto che il terminale ricevente abbia davvero ricevuto e compreso il “messaggio”. Nella versione più complessa si inseriscono molti altri dettagli come l’interesse, la risposta, il riconoscimento, l’intenzione e tanto altro che qui non tratteremo.

Ora che abbiamo chiarito i termini base andremo a vedere cosa c'entrano con la comprensione e lo studio. 

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2014 Autore: Antonio Pellati. Tutti i diritti riservati. Articolo scritto per Applied Scholastics Itlalia e Mediterraneo. 

Licenza derivativa per la compilazione e elaborazione di materiali basati su LRH di Applied Scholastics Italia e Mediterraneo. 
Il testo ha preso spunto dagli scritti di L. Ron Hubbard, nella fattispecie il triangolo di Affinità, Realtà e Comunicazione in relazione alla Tecnologia di Studio. Tale testo non ha la pretesa di sostituirsi ad alcunché di originale di L. Ron Hubbard. Per qualsiasi discrepanza, disaccordo o disappunto nel leggere questo articolo, si consiglia la rilettura dei testi originali di L. Ron Hubbard che trattano tali argomenti.
Applied Scholastics™ ed il logo di Applied Scholastics sono marchi d'impresa e di servizio appartenenti a Association for Better Living and Education A.B.L.E. e sono usati con il suo permesso. Effective Education Publishing (EEP) è la casa editrice di Applied Scholastics. La denominazione di EEP e il suo marchio sono denominazioni e marchi registrati utilizzati solo previa autorizzazione e licenza di Applied Scholastics International.

Un grato riconoscimento alla L. Ron Hubbard Library per l'autorizzazione a pubblicare citazioni e foto dell'autore coperte da copyright.

Sapere tutto a riguardo

C’è una cosa che vi può impedire in assoluto di imparare ed è di fatto l’antitesi dello studio: sapere tutto a riguardo.

Come abbiamo visto, studiare richiede la capacità e/o la volontà di ispezionare, verificare, osservare l’argomento che ci siamo prefissi di studiare.

Pensare di sapere tutto riguardo l’argomento che dovremmo studiare porta esattamente a non ispezionare, non verificare, non osservare l’argomento oggetto di studio. Del resto si tratta di un argomento che è evidentemente a voi noto e di cui onestamente pensate di sapere tutto. Ma quella di cui stiamo parlando è una situazione eclatante in cui voi, esperti pluriennali in un argomento, ad esempio siete dei cuochi che lavorano da anni in un ristorante, vi trovate su un corso base nell’argomento in cui siete specialisti, ad esempio un seminario sulla preparazione delle uova in tegamino. Cosa si può spiegare in un seminario del genere a un cuoco fatto e finito? Sembra ovvio che se vi sedete con una certa sufficienza tra le sedie della sala e vi mettete a trafficare col vostro cellulare non vi perderete certo granché…

Ma che potrebbe accadere se un cuoco con esperienza pluriennale si mettesse ad ascoltare seriamente un seminario del genere con l’idea di vedere se c’è qualcosa di interessante da apprendere? Potrebbe scoprire che i relatori hanno più esperienza di lui, ad esempio, che ci sono metodi pratici per cucinare un uovo al tegamino che non conosceva affatto, che lui in effetti sono anni che non cucina uova al tegamino perché sul suo posto di lavoro ha affidato quel lavoro al suo assistente e ha perso la mano su questa cosa. Certo, potrebbe anche scoprire che non c’era nulla che non sapesse in primo luogo ma a questo punto il seminario è una validazione delle sue conoscenze: è davvero un cuoco professionista.

In realtà vorrei portare la vostra attenzione su quanto sia subdolo questo punto di vista nell’attività dello studente laddove lo stesso non si renda conto di avere questo punto di vista. E’ il motivo principale per cui le persone anziane in genere tendono a non imparate (ne hanno viste di cose…) o i ragazzi si trasformano in bulli. Un ragazzo che ha difficoltà di apprendimento ordinariamente ha avuto una serie di sconfitte che lo hanno portato a pensare che non sarà in grado di imparare il prossimo argomento. Ha studiato ed è stato interrogato con risultati disastrosi abbastanza volte da portarlo a pensare che studiare “non sia per lui” (non è “portato” per lo studio). Questo lo porta ad affrontare l’intero ambiente come un posto dove lui “sa tutto a riguardo”: gli spiegheranno un altro argomento, vorranno da lui delle risposte che non saprà dare, dovrà fare la figura dell’ignorante (che tenterà di dissimulare in qualche modo mostrando di essere sprezzante, indifferente, esageratamente allegro o usando qualsiasi metodo che si usa quando ti fanno fare figuracce in pubblico) e avrà problemi a casa e con i professori. Come vi sentireste se aveste la certezza assoluta che le cose non si possono imparare, vi costringessero a frequentare un posto che vi ricordi ogni trenta secondi quanto siete inadeguato per l’ambiente e vi chiedessero continuamente conto della vostra ignoranza? Cerchereste come minimo di non frequentare quell’ambiente e, se proprio foste costretti, usereste la forza o quant’altro potreste usare per imporre nell’ambiente la vostra presenza.

Questa non è una disanima di un fenomeno sociale che evidentemente non può essere esaurito in queste poche righe ma un esempio di quanto il “sapere tutto a riguardo” sia l’esatto opposto dello studio e della volontà di studiare e quanto questo punto di vista sia alla base di una serie di manifestazioni che comportano l’incapacità o la volontà esplicita di non voler esaminare, ispezionare, verificare, osservare un argomento. E’ di fatto la barriera assoluta dietro la quale non c’è studio di alcun tipo e non è detto che sia eretta in maniera consapevole. Il suo antidoto è la curiosità: pensare che potrebbe esserci qualcosa che ancora non si conosce in quell’argomento nonostante si pensi di averlo sviscerato fino in fondo, pensare che, guardando bene, ci sia ancora qualche dettaglio utile da sapere.

Un altro esempio di quanto sia subdolo questo pensiero: comprereste un corso di pittura laddove voi pensaste di non essere portati per la pittura? E’ evidente che in una materia che vi porti a pensare di non “esserci portati” ci siano nascoste moltissime cose che non avete compreso tuttavia non ci investireste del tempo e dei soldi e se provate ad indagare i perché è molto probabile che “sapete benissimo che non siete in grado” e quindi non ne vale la pena. “Sapete benissimo che non siete in grado” non vi suona terribilmente simile a “so tutto a riguardo”?

 

Ma da che è composta la comprensione delle cose?

 

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2013 Autore: Antonio Pellati. Tutti i diritti riservati. Articolo scritto per Applied Scholastics Itlalia e Mediterraneo. 

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Il testo ha preso spunto dagli scritti di L. Ron Hubbard, nella fattispecie il triangolo di Affinità, Realtà e Comunicazione in relazione alla Tecnologia di Studio. Tale testo non ha la pretesa di sostituirsi ad alcunché di originale di L. Ron Hubbard. Per qualsiasi discrepanza, disaccordo o disappunto nel leggere questo articolo, si consiglia la rilettura dei testi originali di L. Ron Hubbard che trattano tali argomenti.
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Che cos'è lo studio?

E’ ovvio che chiunque abbia studiato sappia cos’è lo studio. E’ come dire però che chiunque abbia bevuto sappia cos’è l’acqua. In realtà nessuno si è mai fermato più di tanto a considerare cosa è lo studio in se: ha studiato in qualche maniera, ha imparato l’argomento che doveva imparare ed è andato oltre.

Se ci pensate bene lo studio è una di quelle cose che, quando ci si mette l’attenzione, sembra comparsa all’improvviso nella nostra vita e tutti intorno a noi hanno dato per scontato che noi sapessimo benissimo cosa fosse. E noi ci siamo comportati come se effettivamente sapessimo da sempre di cosa stavamo parlando.

In effetti un bel po’ di tempo è stato speso per spiegarci quando studiare, quanto studiare, dove studiare, cosa studiare ma molto poco su come studiare. Del tempo è stato perfino impiegato a convincerci che studiare fosse una cosa corretta da farsi e di questo potremmo avere qualche ricordo spiacevole che rende l’argomento studio doloroso e poco gradito ancora oggi…

In realtà se andiamo ad analizzare cos’è lo studio scopriamo che è un’attività di una semplicità estrema: è osservare la cosa che vogliamo conoscere con l’idea di comprenderla. Tutte le immagini di studenti carichi di libri, pomeriggi interminabili passati a fare esercizi, sbadigli senza fine ascoltando il professore in classe sono dovute alle difficoltà che abbiamo incontrato nello studiare intensivamente in un periodo preciso della nostra vita. La verità è che abbiamo studiato e studiamo qualcosa tutti i giorni e molto spesso in maniera brillante rispetto ai nostri studi scolastici.

La cosa mediamente va così. Avete comprato un televisore, lo collegate all’antenna e alla corrente. Prendete il telecomando e cominciate ad osservarlo per accendere l’apparecchio. Il costruttore “ovviamente” ha disposto i tasti in un modo diverso da tutti i telecomandi che conoscete e ci sono tasti con simboli o scritte che non avete mai visto. A quel punto scatta la ricerca di spiegazioni e vi rivolgete a qualcuno esperto: una persona che è presente in quel momento e sapete che sarà in grado di spiegarvi quello che non comprendete, oppure prendete in mano il manuale (in un certo senso possiamo vederlo come una persona esperta nell’uso di quel telecomando che lo sta spiegando in contemporanea a tutti gli acquirenti). La scena ideale dovrebbe prevedere che il manuale abbia una sezione che spiega l’uso del telecomando in buon italiano e non in un italiano tradotto dal cinese tramite approssimativi traduttori informatici. Invece trovate le istruzioni scritte in tutte le lingue europee, quasi tutte quelle asiatiche compreso il sanscrito ma non scritte in italiano… Ad ogni modo recuperate le vostre conoscenze di inglese, francese e spagnolo e trovate i pulsanti che vi interessano per un uso soddisfacente dell’apparecchio. E questo secondo voi non è studiare?

Osservatevi attentamente. Avete ispezionato l’oggetto, compreso che c’erano cose sconosciute da dover capire, trovato i dati che vi servivano comparando informazioni da più parti e siete diventati competenti nell’uso di quel telecomando per quel che vi serviva. Non solo, voi volevate assolutamente capire come funzionava per poterlo mettere in pratica e avevate il punto di vista più corretto in assoluto per imparare: studiare per capire e mettere in pratica.

Se ci riflettete un attimo scoprirete che studiate almeno una decina di cose nuove al giorno di media, dall’esecuzione di una ricetta per un piatto nuovo che vi passa l’amica a quel comando da usarsi con quel programma che vi risolve una bella rottura di scatole, da cosa crea quel rumore nuovo che sentite in macchina a come si fa e cosa dovete compilare per ottenere la borsa di studio per vostro figlio.

Ogni volta che ci siete riusciti avete evidentemente allineato le modalità con cui una persona impara, ogni volta che non ci siete riusciti avete sbagliato qualcosa a vostra insaputa. Il fatto che comunque avete imparato qualcosa vi dovrebbe far capire che siete in grado di imparare e che quando fallite c’è qualcosa di sbagliato in quel che fate.

Vogliamo vedere cosa stiamo sbagliando?

(c) 
2013 Autore: Antonio Pellati. Tutti i diritti riservati. Articolo scritto per Applied Scholastics Itlalia e Mediterraneo. 
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Tecnologia perduta

Ci sono moltissime abilità duramente conquistate dall’uomo che sono letteralmente sparite dall’orizzonte della sua conoscenza. Solo cento anni fa si costruivano motori a vapore con un rendimento incredibile. Oggi se per qualche motivo vi doveste trovare nella necessità di acquistare un motore a vapore non sapreste neppure dove trovare un costruttore di motori a vapore o qualcuno che tecnicamente sia in grado di costruirne uno nonostante l’accresciuta conoscenza di tecnologia meccanica e l’esistenza di nuovi materiali che se applicati renderebbero quei motori ancora più efficienti.

Potrebbe sembrare un problema legato all’economia di mercato ma è anche un indicatore di un fenomeno legato all’apprendimento: quando non usiamo i dati che abbiamo imparato li perdiamo.

Questo è un dato pertinente nella creazione di un corso di istruzione ed è importantissimo da conoscere per uno studente. Difatti è inutile inserire in un corso delle tecnologie che poi non si utilizzeranno nella pratica perché semplicemente risulteranno in una perdita di tempo per lo studente che nella migliore delle ipotesi ne conserverà un vago ricordo e non sarà in grado di applicarle una volta terminato il corso. D’altro canto uno studente dovrebbe conoscere questo dato e preoccuparsi di esercitarsi di tanto in tanto sulle cose apprese nel tempo per mantenere una familiarità e una pratica di utilizzo dei dati sufficiente per assicurarsi una giusta competenza nell’uso.

E’ inutile dire, come la vostra esperienza sicuramente confermerà, che è difficile da parte di uno studente scorrere il materiale studiato e verificarne la propria conoscenza. Richiede un punto di vista che non è facile trovare in uno studente di oggi particolarmente in una scuola che istruisce più che creare competenza.

Richiede in pratica uno studente che si faccia continue domande su quello che sta imparando e sappia distinguere, in quel che sta apprendendo, un dato che è pratico, utile e di valore nella sua vita da un dato che non serve a nulla ma che è stato inserito nel suo piano di studio. Non è poca cosa davvero ma non è nemmeno una cosa impossibile: è il punto di vista di qualcuno che paga per ricevere un corso e vuole, al termine del corso, saper mettere in pratica davvero quello che ha studiato. Lo vediamo applicato in un emigrante che vuole imparare la lingua locale per trovare un lavoro sul posto, ad esempio. In un caso del genere non credo vi accontentereste di un attestato di partecipazione, vorreste davvero riuscire a esprimervi al meglio nella vostra nuova lingua!

Ricapitolando: avere a mente che è necessario verificare il proprio sapere ci porta ad essere pienamente competenti, ad evitare brutte figure (“come diavolo si faceva quella cosa?…”), ma richiede un punto di vista da studente professionista.

Questo ci porta alla prossima domanda: che cos’è lo studio?

(c) 
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Studiare per l'esame

Quante volte, da ragazzi mentre eravate a scuola, vi siete ritrovati con la professoressa che vi ha chiesto una cosa che era stata spiegata e studiata due o più mesi prima e avete rimediato un brutto voto perché non la ricordavate affatto? “Era roba che non studiavamo da tre mesi…” E’ all’incirca la giustificazione che avete elaborato all’epoca di fronte al genitore sorpreso (n.d.r. che il genitore fosse sorpreso lo diamo per scontato…) per la vostra media rovinata. Molto probabilmente la cosa è finita con un sordo rancore verso la professoressa che ha fatto la domanda indelicata e la vita è continuata tranquilla.

In realtà vi è passato davanti un sintomo molto noto nel campo della tecnologia di studio che potremmo sintetizzare così: studiare per l’esame.

Se studiamo senza uno scopo preciso di apprendere per diventare competenti nella materia che stiamo studiando ci troviamo nella situazione di studiare qualcosa per il solo motivo di saperlo quando verremo interrogati. Questo ci porta a ricordare l’argomento solo per il tempo necessario per passare l’interrogazione. Soprattutto l’argomento verrà studiato senza essere ispezionato, con lo stesso metodo con cui apprendiamo le credenze (cioè l’apprendere cose più per fede che per ispezione, verifica, del dato), quindi lo studente si trova ad imparare qualcosa che comunque non saprà usare se non nell’ambito del semplice esercizio fatto durante il corso.

Facendo un esempio empirico nel campo della competenza, cosa pensereste di un cuoco che a termine corso non ricorda come si porta in ebollizione una pentola d’acqua e si giustifica dicendo “…era spiegato nella prima lezione  fatta sei mesi fa…”? E che pensate di uno studente del quinto superiore che non sa fare il calcolo di una percentuale e si giustifica dicendo “…mi è stato spiegato in prima media, sette anni fa…”?

Studiare per l’esame comporta il subire completamente l’indottrinamento cercando di essere preparati per l’interrogazione successiva. Studiare per diventare competenti comporta il continuo domandarsi: dove è usato questo dato? Dove trovo un esempio nella mia vita o nell’ipotetico lavoro futuro che mi faccia capire in che modo questo dato mi sarà utile e necessario?

Ad esempio il calcolo della percentuale possiamo vedere che torna utile in una miriade di casi tanto che possiamo ritenerlo un dato di base per la vita odierna. Entra in campo per calcolare quanto olio dobbiamo mettere nella benzina di un vecchio tagliaerba perché funzioni correttamente, quale banca ci farà pagare meno (e quanto ci costerà in tutto) il nostro mutuo, serve quotidianamente per tutti i lavori che hanno a che fare in qualche misura con il fisco (cioè tutti quelli legali…) e potremmo enumerare moltissimi altri casi. Questo giustifica perché è insegnato nelle nostre scuole elementari, è ripetuto nelle scuole medie ed è usato negli esercizi delle nostre scuole superiori. Ma quando ce lo hanno spiegato, chi ci ha spiegato anche a cosa sarebbe servito? E a noi è venuto in mente di chiedere a cosa ci serviva impararlo?

In pratica chi insegnava stava seguendo un programma che giustamente prevedeva la spiegazione del calcolo delle percentuali, chi era presente alle spiegazioni lo imparava senza chiedersi a cosa serviva impararlo dando per scontato che gli adulti sappiano sempre cosa stanno facendo. Alla fine, non avendo presente le motivazioni vere per cui era necessario impararlo, moltissimi hanno imparato il dato per un tempo necessario a superare un eventuale verifica scritta od orale.

Si può fare di meglio? Certamente ma occorre cambiare il punto di vista dello studente. Vi rimando alla prossima puntata per vedere come.

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Istruzione e competenza

  Immaginate qualcuno che vi prende per mano, vi dice qualcosa come “vieni e segui quel che dice che è interessantissimo” e vi porta a sedere  in una stanza dove c’è una persona che sta parlando. Questa persona parla di qualcosa che a voi sembra sia, come argomento, interessante come guardare una goccia d’acqua che evapora a temperatura ambiente. Tra l’altro usa termini esoterici come “l’esegesi giuridica delle idiosincrasie legislative paleocristiane” (N.d.R.: interpretazione delle contraddizioni delle leggi del periodo paleocristiano). Dopo un po’ di tempo in cui state cercando i sottotitoli di quel che sta dicendo l’oratore, sembra logico che vi assalga nell’ordine una strana sensazione allo stomaco, una specie di nervosismo isterico, una catalessi profonda, la necessità fisica di non essere lì. E’ ovvio quindi che vi girate verso il vostro vicino e gli chiediate che ore sono. Se è un tipo simpatico dopo trenta secondi avete attaccato bottone e a fine giornata è nata un’amicizia.

Questo è quello che più o meno accade a ogni studente ai giorni nostri. Un bel momento ti viene comunicato che andrai a scuola. La cosa è messa che ti sembra una cosa buona, è un posto dove vanno tutti i bambini, dove si gioca. Da allora praticamente nessuno ti spiega davvero perché ti trovi a scuola.

Quando andavi a scuola in una bottega artigiana, nei tempi andati, per imparare a fare il vasaio era chiarissimo il fatto che chi ti stava insegnando aveva l’obbiettivo di farti diventare un vasaio competente (competente inteso come persona in grado di fare una cosa possibilmente meglio degli altri). Nella società di oggi è difficile comprendere come avere imparato cosa è un polinomio (un tipo di calcolo algebrico) sia direttamente necessario per essere competenti in qualcosa. La scuola in genere si ritrova oggi ad avere come scopo più o meno dichiarato l’istruire lo studente. Ma l’istruzione è solo il passo che precede la competenza (occorre essere istruiti su una cosa per poter essere competenti in quella cosa) ed è questo che rende la scuola di oggi inadeguata o, per meglio dire, fa percepire dalla gente la scuola come inadeguata.

Abbiamo uno scopo sbagliato. Istruire non è assolutamente sbagliato ma se l’istruzione non è legata a un fine abbiamo fatto metà del lavoro. E’ come nel gioco del calcio avere lo scopo di portare la palla nell’area avversaria invece di avere lo scopo di portarla oltre la riga dentro la porta avversaria.

Questo lo riscontriamo nel momento in cui un giovane studente si trova a cercare lavoro. Il principale cerca una persona che sappia tenere i conti della propria azienda. I candidati hanno come unica “certificazione” di competenza un diploma o una laurea. Quello che si verifica oggi è che il principale sa già che non assumerà una persona competente se assume un giovane appena uscito di scuola, ma avrà bisogno di un lungo tirocinio e non gli sarà di aiuto nemmeno notare con che voti ha terminato gli studi.

Se la scuola avesse preparato persone competenti il principale avrebbe assunto una persona che nel giro di un mese avrebbe lavorato a pieno ritmo nella sua azienda.

E’ evidente che nonostante la buona volontà di quanti operano nel campo dell’istruzione c’è molto spazio per migliorare.

(c) 
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